L’Oncologo Improvvisatore

1 Settembre 2017 • Redazione

Questo post è la traduzione di un interessante articolo sul tema degli approcci degli oncologi alla cura dei tumori apparso sul New York Times Magazine:

The Improvisational Oncologist

di Siddhartha Mukherjee.

Mukherjee è probabilmente uno degli oncologi più famosi al mondo  e uno scienziato della Columbia University. Nel 2011 ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa per il suo libro “L’imperatore del male. Una biografia del cancro”. Il suo nuovo libro “Il gene. Il viaggio dell’uomo al centro della vita“ è stato ancora una volta un grande successo editoriale.

Bisogna comunque tenere il contesto americano dei contenuti dell’articolo. In Italia per ragioni legislative, organizzative degli ospedali e per disponibilità di fondi alcune pratiche descritte non sono materialmente possibili. Ciò nondimeno l’articolo offre importanti spunti di riflessione.

 

Marzo 2016

In un’epoca di rapida proliferazione di trattamenti personalizzati, ogni caso di tumore deve essere gestito come una musica suonata ad orecchio.

 

La biopsia del midollo osseo era durata circa 20 minuti. Erano le 10 di una mattinata insolitamente fredda a New York di Aprile, e Donna M., una donna di 78 anni, molto padrona di sé, aveva volato da Chicago per incontrarmi nel mio studio presso il Columbia University Medical Center. La sera prima si era concessa un concerto d’orchestra, “Gli Umani”, ed ora era in attesa nella stanza in una condizione in cui a nessuno dovrebbe essere mai chiesto di aspettare: pantaloni giù, schiena curva, ginocchia sollevate al petto – una donna matura accovacciata in posizione fetale. Ho messo su i guanti sterili mentre l’infermiera ha tirato fuori un carrello contenente un ago in acciaio della lunghezza del dito indice. Il bordo dell’osso pelvico di Donna era stato anestitizzato e ho guidato l’ago, nel modo più dolce possibile, nell’estremità esterna dell’osso. Il dolore è venuto fuori dal suo corpo  come una sorta di cavatappi mentre il midollo veniva aspirato, insieme ad alcuni millilitri di materiali organici rossi, ossidati di ossa, che hanno riempito la siringa. Era leggermente viscoso, a metà tra il  liquido e il  gel, come la polpa schiacciata di una fragola molto matura.

Seguo Donna in collaborazione alla mia collega Azra Raza da sei anni. Donna ha una sindrome pre-leucemica chiamata sindrome mielodisplastica, o MDS, che colpisce il midollo osseo e il sangue. È una malattia misteriosa con poche cure note. Il midollo osseo umano è normalmente il posto dove nascono la maggior parte delle cellule del nostro sangue – una sorta  nursery per il sangue giovane. Nelle MDS, le cellule del midollo osseo acquisiscono delle mutazioni genetiche che le costringono a crescere in modo incontrollabile – ma poi queste cellule giovani non riescono né a maturare né a diventare sangue, e inoltre muoiono a frotte. È una maledizione doppia. Nella maggior parte dei tumori, il problema principale sono le cellule che rifiutano di smettere di crescere. Nel midollo Donna, questo problema è aggravato da cellule che si rifiutano di crescere.

Anche se ci sono delle comunanze tra i tumori, ovviamente, ogni tumore si comporta e si muove – “pensa“, anche – in modo diverso. Cercando di trovare un farmaco che si adattasse al tumore di Donna, Raza e io le abbiamo somministrato una gamma di farmaci. Durante tutto questo tempo Donna è stata un paziente formidabile: perennemente ingegnosa, ottimista e disposta a provare qualunque cosa. (Ogni volta che la incontro in clinica mentre con grande forza d’animo è in attesa in della sua biopsia,  è il medico, non il paziente, che si sente piccolo e in posizione fetale). Ha peregrinato da una sperimentazione clinica all’altra, spostandosi di città in città, e da un farmaco all’altro, attraverso un paesaggio più desolato di quanto molti di noi possono immaginare; Donna chiama il percorso di cura  la sua “monogamia seriale” con i diversi medicinali. Alcuni di questi farmaci hanno funzionato  per settimane, alcuni per mesi – ma le risposte transitorie hanno lasciato la strada ad inevitabili recidive. Donna comincia ad esaurire le sue energie.

La sua biopsia quella mattina era quindi parte di routine e parte di esperimenti. Pochi minuti dopo il prelievo del midollo, un tecnico ha subito portato il materiale prelevato in laboratorio. Lì hanno estratto le cellule dalla miscela e lo hanno pipettato in piccoli pezzi come chicchi di grano, 500 celle per ogni pezzo. A ciascun pezzo, circa 1.000 in totale, si aggiungerà un piccolo dosatore di un singolo farmaco: prednisone, ad esempio, a un pezzo, procarbazina al successivo e così via. L’esperimento sperimenta circa 300 farmaci (molti non sono stati addirittura destinati ai tumori) a tre diverse dosi per valutare gli effetti dei farmaci sulle cellule Donna.

Il materiale prelevato viene  immerso in un sostanza ricca di nutrienti ricchi di fattori di crescita, le cellule si raddoppieranno in un incubatore nel corso delle due settimane successive, dando luogo ad un’enorme crescita di cellule maligne – sintesi di un cancro in una capsula. Un computer, addestrato a contare e valutare le cellule, determinerà se uno dei farmaci abbia ucciso le cellule cancerose o le ha costrette a maturare in sangue quasi normale. Lungi dal fare affidamento su dati provenienti da altri trial o pazienti, l’esperimento testerà il tumore di Donna per la sua reattività rispetto ad un gruppo di farmaci. Le cellule, non i corpi, sono entrati in questo studio preclinico e i risultati guideranno il suo futuro trattamento.

Ho spiegato tutto questo a Donna. Tuttavia lei ha fatto una domanda: che cosa succederà se il farmaco che sembrava essere il più promettente si rivelerà inefficace?

“Allora proveremo il prossimo,” le dissi. “L’esperimento, speriamo, porterà più di un candidato, e andremo in fondo alla lista”.

“La medicina sarà come la chemioterapia?”

“Potrebbe, o forse no. Il farmaco che alla fine utilizzeremo potrebbe essere preso in prestito da qualche altra malattia. Potrebbe essere una pillola antinfiammatoria o un farmaco per l’asma. Per quello che ne sappiamo potrebbe essere l’aspirina”

La mia conversazione con Donna rifletteva quanto il trattamento dei tumori sia cambiato nell’ultimo decennio. Sono cresciuto come oncologo in un’epoca di protocolli standardizzati. I tumori sono stati raggruppati in categorie basati sul loro sito di origine anatomico (cancro al seno, cancro del polmone, linfoma, leucemia) e il trattamento chemioterapico, spesso una combinazione di farmaci tossici, è stato dettato da quelle classificazioni anatomiche. Le combinazioni – Adriamicina, bleomicina, vinblastina e dacarbazina, ad esempio, per il trattamento della malattia di Hodgkin – sono state raramente modificate per singoli pazienti. La prospettiva di personalizzare la terapia era disapprovata: più ci si allontana dallo standard, la teoria dice,  più il paziente  avrebbe finito con alta probabilità adessere curato male  o gestito in modo improprio, rischiando delle recidive. Negli ospedali e nelle cliniche sono stati istituiti sistemi informatici per monitorare la conformità di un oncologo rispetto alla terapia standard. Se si è scelto di fare un’eccezione per un particolare paziente, è necessario giustificare la scelta con un’adeguata motivazione. Big Chemo ti stava guardando.

Ho memorizzato i nomi abbreviati dellle combinazioni di farmaci chemioterapici – la prima lettera di ogni farmaco – per i miei esami e li ho ripresi e utilizzati con miei pazienti durante le mie ore di clinica. C’era qualcosa di magico e sciamanico in quegli acronimi. Erano delle sorta di mantra intrisi di promesse e di pericolo: A.B.V.D. per Hodgkin’s, C.M.F. per il tumore al seno, B.E.P. per il tumore testicolo. Il gergo dei chemioterapisti era come un codice segreto o una stretta di mano; anche la sola capacità di chiamare tali veleni per nome mi faceva sentire potente. Quando i miei pazienti mi chiedevano dati statistici avevo i numeri sulle punte delle mie dita. Potevo indicare con precisone la probabilità di sopravvivenza, la probabilità di recidiva, la probabilità che la chemio li rendesse sterili o gli causasse la perdita dei capelli. Mi sentivo onniscente.

Tuttavia, mentre parlavo con Donna quella mattina, ho capito come tutta questa onniscienza abbia cominciato a diminuire – innescando un approccio più sperimentale o quasi artigianale in oncologia. La maggior parte dei pazienti affetti da tumore è ancora trattata con quei protocolli standardizzati,  governati dall’anatomia dell’organo del cancro. Ma per i pazienti come Donna, per i quali i soliti trattamenti non funzionano, gli oncologi devono utilizzare la loro conoscenza, spirito e creatività per inventare terapie individualizzate. Sempre più ci avviciniamo ad ogni paziente come un problema unico da risolvere. Farmaci tossici che agiscono in modo indiscriminato su tutte le cellule stanno lasciando il posto a molecole più agili che possono mirare un modo più preciso all’attivazione  o disattivazione di pathways complessi nelle cellule, rimuovendo i fattori di crescita, accelerarando o decelerarando la risposta immunitaria o soffocando la fornitura di nutrienti e ossigeno alle cellule tumorali. Sempre più dobbiamo trovare modi per usare i farmaci come strumenti di precisione per inceppare e spegnere interruttori selettivi in particolari cellule tumorali. Gli oncologi formati per seguire le regole sono ora invitati a rinventarle.

Il pensiero che ogni singolo tumore potrebbe richiedere un trattamento specifico individualizzato può essere profondamente inquietante. Michael Lerner, uno scrittore che ha lavorato con i pazienti affetti da tumore, una volta ha paragonato l’esperienza di una diagnosi di tumore essere a quella di un lancio da un paracadute  senza una mappa o una bussola; ora è l’oncologo che si sente paracadutato su uno strano paesaggio, senza alcuna idea di quale sia la strada da percorrere. Spesso non esistono dati statistici di esperienze precedenti, e ancor meno certezze. L’asticella del successo  è diventata più alta, i successi più sorprendenti e i fallimenti più personali. In precedenza si stendevano veli  di colpa intorno a un paziente. Quando non rispondeva alla chemioterapia, colpa era sua: lei aveva fallito. Ora, se non riesco a trovare uno strumento nel crescente insieme di farmaci a disposizione per colpire le vulnerabilità del cancro, allora la sensazione è che il trend si è invertito: è il medico che ha fallito.</