Fatica di decidere

Chirurgia del tumore del pancreas: quali benefici e quali rischi

4 Ottobre 2019 • Redazione

La cultura e le convinzioni della comunità dei pazienti e dei familiari del tumore del pancreas sono permeate dal mantra dell’intervento chirurgico immediato risolutore della malattia. L’intervento viene oggi effettuato su circa il 20% dei pazienti affetti da tumore del pancreas. Per una percentuale ridotta di questo 20% di pazienti può avere un ruolo decisivo nell’allungare la sopravvivenza. L’attuale mancanza di adeguati marcatori biologici rende difficile capire quando sia realmente opportuno sottoporsi all’intervento e come meglio arrivarci. Discrepanze sui criteri decisionali tra diversi chirurghi e il rischio di recidive a pochi mesi di distanza dall’intervento aumentano la fatica di decidere dei pazienti e dei loro familiari.

Introduzione

La quasi totalità dei pazienti e dei loro familiari, a fronte di una diagnosi di tumore al pancreas, si rivolge in prima istanza ad un chirurgo indipendentemente dallo stadio della malattia, anche in presenza di metastasi, situazione in cui l’intervento chirurgico non è contemplato dalla linee guida basate sull’evidenza scientifica. Comportamento comprensibile perché nessuno arriva culturalmente preparato ad affrontare all’improvviso una diagnosi così devastante. C’è anche un contesto storico e culturale, una sorta di effetto trascinamento, che fino a 15-20 anni fa vedeva la chirurgia come l’unica opzione di cura, nella convinzione che la resezione della parte visibile del tumore fosse la cura. L’osservazione dell’andamento della malattia nel postoperatorio ha fatto invece emergere una componente fondamentale e strutturale del tumore del pancreas: la presenza nella maggioranza dei casi di micrometastasi non rilevabili dagli attuali strumenti diagnostici e fonte di problemi di difficile gestione.

L’obiettivo di andare ad un intervento chirurgico ovviamente trova un supporto importante nella letteratura scientifica che evidenzia come una quota dei pazienti operati abbiano una probabilità di sopravvivenza maggiore.

È bene però analizzare criticamente e comprendere meglio i dati disponibili per decidere per l’intervento chirurgico immediato oppure per dei cicli di chemioterapia detta neoadiuvante, a cui far seguire una rivalutazione dello stadio della malattia. Tutto ciò per favorire una scelta che minimizzi il rischio di percorsi terapeutici in ultima analisi dannosi e controproducenti.

L’intervento chirurgico immediato

Oggi fondamentalmente la decisione relativa all’intervento chirurgico si fonda:
– sullo stadio del tumore,
– sullo stato di forma fisica del paziente,
– sul rischio di possibili complicazioni derivanti da altre concomitanti patologie.

Molti chirurghi prendono anche in considerazione il valore del marcatore tumorale CA 19.9. Ad oggi non esiste comunque un consenso generalizzato su quale sia il valore a cui fare riferimento per il CA 19.9. L’intervento è poi seguito da una serie di cicli di chemio detta adiuvante.

Percorso di cura con chirurgia immediata

Al momento non esistono criteri biologici affidabili sulla base dei quali decidere se andare all’intervento nella prospettiva di una maggiore sopravvivenza. Ciò deriva anche dall’attuale limitato livello di conoscenza della biologia del tumore del pancreas che purtroppo non è allo stesso livello di quelle dei tumori del seno, della prostata o della tiroide, la cui sopravvivenza a 5 anni è di gran lunga maggiore.

Nella attuale pratica chirurgica l’obiettivo fondamentale dell’intervento al tumore del pancreas, indipendentemente dallo stadio della malattia, è quello di ottenere una resezione con margine R0, ovvero le cellule tumorali sul pezzo operatorio si trovano ad almeno 1 mm dal margine di taglio. Inoltre, è bene essere consapevoli che l’esame istologico del margine di taglio viene raramente eseguito in estemporanea, cioè in corso di intervento.

Il processo decisionale, il come e il perché della decisione di andare all’intervento, benché non basato su marcatori biologici è importantissimo. perché quello che non viene detto ai pazienti per una presa di decisione consapevole sono i seguenti dati post intervento [Groot, VP e al., 2017, Annal of Surgery]:

  • il 18.2% sviluppa una recidiva nei primi 6 mesi dopo l’intervento,
  • il 21.1% sviluppa una recidiva tra il 6° e il 12° mese,
  • il 21,6% sviluppa una recidiva fra il 12° e il 24° mese.

La tabella sottostante ci dice quindi che il 39.3% dei pazienti operati sviluppa una recidiva nel primo anno a fronte di un intervento molto impegnativo con un tasso di complicazioni del 40%. Questi dati rappresentano un primo contributo importante per decidere quale è il potenziale impatto di una scelta che privilegia l’esecuzione dell’intervento immediatamente in ragione della maggiore enfasi dell’aspetto locale, visibile, in termini di controllo della malattia.

Inoltre, tra i pazienti sottoposti ad intervento di resezione, una percentuale ridotta, il 51%, riesce ad iniziare la chemio adiuvante entro le 8 settimane post-intervento [The Impact of Postoperative Complications on the Administration of Adjuvant Therapy Following Pancreaticoduodenectomy for Adenocarcinoma, W Wu, 2014, ASO].

Questi dati forniscono un secondo contributo perché il trattamento chemio adiuvante postoperatorio è molto importante per cercare di aggredire eventuali micrometastasi ancora presenti nel corpo del paziente come ci insegna la costante osservazione che mostra come in una percentuale elevata di pazienti la malattia ricompaia in altri organi (fegato, polmone, peritoneo…).

Un terzo contributo viene da uno studio del Registro Nazionale dei Tumori olandesi [Nationwide Improvement of Only Short-Term Survival After Resection for Pancreatic Cancer in The Netherlands, Nienhuijs et alt., 2012] che sulla base dei dati dei pazienti operati dal 1989 al 2008 ha evidenziato il numero dei pazienti che vengono a mancare in successive finestre temporali:

  • 7% a 3 mesi,
  • 16% a 6 mesi,
  • 37% a 12 mesi.

Questi dati rappresentano un ulteriore elemento di valutazione se si pensa che la mediana di sopravvivenza dei pazienti Stadio IV è di 11 mesi.

I recenti risultati dello studio clinico PRODIGE-24 mostrano valori interessanti dei tempi di assenza di malattia, DFS, Disease Free Survival, con dati di sopravvivenza potenzialmente rilevanti per la sopravvivvenza, OS, Overall Survival, che necessitano una verifica nella pratica clinica giornaliera negli ambulatori. Le modalità di arruolamento dei pazienti alla sperimentazione molto selettive realisticamente non trovano una corrispondenza nella realtà della tipologia dei pazienti che arrivano negli ospedali [Borderline Resectable Pancreatic Cancer, M. Katz et Al., 2019, Cancer].

Un nuovo percorso possibile con chemio neoadiuvante

La decisione di andare all’intervento è soprattutto critica per i pazienti con tumore borderline, tumore che vede coinvolti la vena portale e/o la vena mesenterica superiore per cui la ricostruzione del vaso è fattibile [Optimizing the outcomes of pancreatic cancer surgery, 2018, Oliver Strobel et Al., Nature].

Esiste un’opinione sempre più condivisa che negli ultimi anni tende a privilegiare l’idea di partire con una chemio neoadiuvante con il duplice obiettivo di:

  • ridurre la massa tumorale e il grado di coinvolgimento dei vasi da parte del tumore,
  • aggredire le potenziali micrometastasi già presenti e non rilevabili agli strumenti diagnostici senza dover aspettare mesi nei numerosi casi di un recupero lento post-intervento

Alcuni risultati preliminari di una serie di sperimentazioni cliniche in corso di validazione tendono a suggerire la validità di questo approccio. I risultati dello studio randomizzato di Fase II-III PACT-15 e dello studio randomizzato di Fase II PACT-19, [Reni et al, 2018], hanno dato indicazioni di migliore sopravvivenza. Queste indicazioni hanno trovato dei riscontri nei risultati preliminari dello studio randomizzato di Fase III PREOPANC che ha avuto una vasta eco al recente congresso ASCO 2018, i cui dati preliminari hanno mostrato una migliore sopravvivenza nel caso di somministrazione di chemioterapia prima dell’intervento.

Questi studi mostrano che la chemio neoadiuvante non comporta complicazioni chirurgiche e non pregiudica il recupero postoperatorio. Inoltre la chemio neoadiuvante permette di verificare da subito la sensibilità del paziente ai farmaci del protocollo scelto senza doverla verificare nel post intervento, migliorando la capacità di scelta del percorso di cura. I precedenti dati sulla chirurgia immediata ci dicono che l’intervento non produce risultati nel caso di un tumore aggressivo e resistente ai farmaci e quindi questo approccio può fornire delle indicazioni sull’opportunità di andare all’intervento.

Anche in questo caso non c’è consenso nella comunità medica sulla durata della chemio neoadiuvante: due, tre, quattro o sei mesi. E neppure su quale sia lo schema più efficace: chemio, chemio più radioterapia, chemio più SBRT, … . In ogni caso dopo l’intervento si procede con la terapia adiuvante senza che ci siano degli studi sull’efficacia dello stesso tipo di schema chemioterapico prima e dopo l’intervento.

Considerazioni finali

Quindi i dati pubblicati in letteratura ci dicono che:

  • circa il 20% dei pazienti diagnosticati con un tumore del pancreas oggi affronta l’intervento,
  • di questo 20% nel caso di intervento immediato senza passar attraverso una cura neoadiuvante:
    • il 39.3% sviluppa una recidiva nel corso del primo anno post intervento
    • il 37% viene a mancare nel primo anno ,
  • solamente circa il 50% circa dei pazienti operati riesce ad iniziare le cure chemioterapiche nelle 8 settimane successive all’intervento chirurgico, aspetto rilevante per aggredire le micrometastasi. Non solo, dei pazienti operati che iniziano la chemioterapia solo il 60% riesce a completarla.

A fronte dei precedenti dati c’è da domandarsi per quanti pazienti l’intervento chirurgico immediato sia la scelta corretta e invece non debba essere preceduto da una cura neoadiuvante che potenzialmente aggredisca le micrometastasi in circolo. Inoltre è lecito domandarsi per quanti pazienti i rischi dell’intervento in termini di sopravvivenza e di qualità della vita siano maggiori dei benefici.

La scelta quindi non è facile e non si vuole in alcun modo sottovalutare il potenziale curativo della chirurgia, ma il 40% circa di recidive nel primo anno post-intervento è un dato che non può non far riflettere. Questo è un quadro di riferimento di dati e di potenziali diversi percorsi di cura per aiutare pazienti e familiari a fare una valutazione più consapevole dei possibili scenari, e di aspettative realistiche con lo scopo di aiutarli a porre delle domande ai medici di riferimento. Inoltre bisogna interrogarsi e riflettere sulla potenziale fallacia dell’idea: rimozione della parte visibile del tumore uguale a rimozione della malattia, a causa della diffusione delle micrometastasi. Tutto ciò fa emergere la fatica di decidere! per pazienti e familiari.

Alcune considerazioni conclusive: la decisone della strategia di cura non può essere delegata al solo chirurgo. Il ruolo di una squadra multidisciplinare e collaborativa, in cui l’oncologo, l’anatomo-patologo, il radioterapista e il radiologo giocano un ruolo importante insieme al chirurgo, deve essere tenuto nella massima considerazione. Diversi centri oggi parlano di approccio multidisciplinare, termine utilizzato più in una prospettiva marketing che di pratica clinica; a tale riguardo conviene verificare la programmazione di riunioni settimanali e la produzione di verbali di queste riunioni.

La presenza di squadre multidisciplinari trova qualche riscontro nei centri ad alto volume, si pone quindi il problema di come venga gestita la cura dei pazienti dei centri periferici. Il suggerimento in questo caso è di avvalersi della seconda opinione di medici di un centro ad alto volume che possibilmente abbiano dei rapporti di collaborazione stabili con il centro periferico. L’ego di alcuni medici può essere un ostacolo importante all’attuazione di questa pratica.

Vale infine la pena sottolineare che mentre solo il 15-20% dei pazienti attualmente affronta l’intervento chirurgico, la quasi totalità dei pazienti si sottopone alle cure chemioterapiche gestite dall’oncologo, che diventa il riferimento principale nel corso delle cure della malattia, anche dei pazienti operati.

 

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Chirurgia del tumore del pancreas: quali benefici e quali rischi

4 Ottobre 2019 • Redazione

La cultura e le convinzioni della comunità dei pazienti e dei familiari del tumore del pancreas sono permeate dal mantra dell’intervento chirurgico immediato risolutore della malattia. L’intervento viene oggi effettuato su circa il 20% dei pazienti affetti da tumore del pancreas. Per una percentuale ridotta di questo 20% di pazienti può avere un ruolo decisivo nell’allungare la sopravvivenza. L’attuale mancanza di adeguati marcatori biologici rende difficile capire quando sia realmente opportuno sottoporsi all’intervento e come meglio arrivarci. Discrepanze sui criteri decisionali tra diversi chirurghi e il rischio di recidive a pochi mesi di distanza dall’intervento aumentano la fatica di decidere dei pazienti e dei loro familiari.

Introduzione

La quasi totalità dei pazienti e dei loro familiari, a fronte di una diagnosi di tumore al pancreas, si rivolge in prima istanza ad un chirurgo indipendentemente dallo stadio della malattia, anche in presenza di metastasi, situazione in cui l’intervento chirurgico non è contemplato dalla linee guida basate sull’evidenza scientifica. Comportamento comprensibile perché nessuno arriva culturalmente preparato ad affrontare all’improvviso una diagnosi così devastante. C’è anche un contesto storico e culturale, una sorta di effetto trascinamento, che fino a 15-20 anni fa vedeva la chirurgia come l’unica opzione di cura, nella convinzione che la resezione della parte visibile del tumore fosse la cura. L’osservazione dell’andamento della malattia nel postoperatorio ha fatto invece emergere una componente fondamentale e strutturale del tumore del pancreas: la presenza nella maggioranza dei casi di micrometastasi non rilevabili dagli attuali strumenti diagnostici e fonte di problemi di difficile gestione.

L’obiettivo di andare ad un intervento chirurgico ovviamente trova un supporto importante nella letteratura scientifica che evidenzia come una quota dei pazienti operati abbiano una probabilità di sopravvivenza maggiore.

È bene però analizzare criticamente e comprendere meglio i dati disponibili per decidere per l’intervento chirurgico immediato oppure per dei cicli di chemioterapia detta neoadiuvante, a cui far seguire una rivalutazione dello stadio della malattia. Tutto ciò per favorire una scelta che minimizzi il rischio di percorsi terapeutici in ultima analisi dannosi e controproducenti.

L’intervento chirurgico immediato

Oggi fondamentalmente la decisione relativa all’intervento chirurgico si fonda:
– sullo stadio del tumore,
– sullo stato di forma fisica del paziente,
– sul rischio di possibili complicazioni derivanti da altre concomitanti patologie.

Molti chirurghi prendono anche in considerazione il valore del marcatore tumorale CA 19.9. Ad oggi non esiste comunque un consenso generalizzato su quale sia il valore a cui fare riferimento per il CA 19.9. L’intervento è poi seguito da una serie di cicli di chemio detta adiuvante.

Percorso di cura con chirurgia immediata

Al momento non esistono criteri biologici affidabili sulla base dei quali decidere se andare all’intervento nella prospettiva di una maggiore sopravvivenza. Ciò deriva anche dall’attuale limitato livello di conoscenza della biologia del tumore del pancreas che purtroppo non è allo stesso livello di quelle dei tumori del seno, della prostata o della tiroide, la cui sopravvivenza a 5 anni è di gran lunga maggiore.

Nella attuale pratica chirurgica l’obiettivo fondamentale dell’intervento al tumore del pancreas, indipendentemente dallo stadio della malattia, è quello di ottenere una resezione con margine R0, ovvero le cellule tumorali sul pezzo operatorio si trovano ad almeno 1 mm dal margine di taglio. Inoltre, è bene essere consapevoli che l’esame istologico del margine di taglio viene raramente eseguito in estemporanea, cioè in corso di intervento.

Il processo decisionale, il come e il perché della decisione di andare all’intervento, benché non basato su marcatori biologici è importantissimo. perché quello che non viene detto ai pazienti per una presa di decisione consapevole sono i seguenti dati post intervento [Groot, VP e al., 2017, Annal of Surgery]:

  • il 18.2% sviluppa una recidiva nei primi 6 mesi dopo l’intervento,
  • il 21.1% sviluppa una recidiva tra il 6° e il 12° mese,
  • il 21,6% sviluppa una recidiva fra il 12° e il 24° mese.

La tabella sottostante ci dice quindi che il 39.3% dei pazienti operati sviluppa una recidiva nel primo anno a fronte di un intervento molto impegnativo con un tasso di complicazioni del 40%. Questi dati rappresentano un primo contributo importante per decidere quale è il potenziale impatto di una scelta che privilegia l’esecuzione dell’intervento immediatamente in ragione della maggiore enfasi dell’aspetto locale, visibile, in termini di controllo della malattia.

Inoltre, tra i pazienti sottoposti ad intervento di resezione, una percentuale ridotta, il 51%, riesce ad iniziare la chemio adiuvante entro le 8 settimane post-intervento [The Impact of Postoperative Complications on the Administration of Adjuvant Therapy Following Pancreaticoduodenectomy for Adenocarcinoma, W Wu, 2014, ASO].

Questi dati forniscono un secondo contributo perché il trattamento chemio adiuvante postoperatorio è molto importante per cercare di aggredire eventuali micrometastasi ancora presenti nel corpo del paziente come ci insegna la costante osservazione che mostra come in una percentuale elevata di pazienti la malattia ricompaia in altri organi (fegato, polmone, peritoneo…).

Un terzo contributo viene da uno studio del Registro Nazionale dei Tumori olandesi [Nationwide Improvement of Only Short-Term Survival After Resection for Pancreatic Cancer in The Netherlands, Nienhuijs et alt., 2012] che sulla base dei dati dei pazienti operati dal 1989 al 2008 ha evidenziato il numero dei pazienti che vengono a mancare in successive finestre temporali:

  • 7% a 3 mesi,
  • 16% a 6 mesi,
  • 37% a 12 mesi.

Questi dati rappresentano un ulteriore elemento di valutazione se si pensa che la mediana di sopravvivenza dei pazienti Stadio IV è di 11 mesi.

I recenti risultati dello studio clinico PRODIGE-24 mostrano valori interessanti dei tempi di assenza di malattia, DFS, Disease Free Survival, con dati di sopravvivenza potenzialmente rilevanti per la sopravvivvenza, OS, Overall Survival, che necessitano una verifica nella pratica clinica giornaliera negli ambulatori. Le modalità di arruolamento dei pazienti alla sperimentazione molto selettive realisticamente non trovano una corrispondenza nella realtà della tipologia dei pazienti che arrivano negli ospedali [Borderline Resectable Pancreatic Cancer, M. Katz et Al., 2019, Cancer].

Un nuovo percorso possibile con chemio neoadiuvante

La decisione di andare all’intervento è soprattutto critica per i pazienti con tumore borderline, tumore che vede coinvolti la vena portale e/o la vena mesenterica superiore per cui la ricostruzione del vaso è fattibile [Optimizing the outcomes of pancreatic cancer surgery, 2018, Oliver Strobel et Al., Nature].

Esiste un’opinione sempre più condivisa che negli ultimi anni tende a privilegiare l’idea di partire con una chemio neoadiuvante con il duplice obiettivo di:

  • ridurre la massa tumorale e il grado di coinvolgimento dei vasi da parte del tumore,
  • aggredire le potenziali micrometastasi già presenti e non rilevabili agli strumenti diagnostici senza dover aspettare mesi nei numerosi casi di un recupero lento post-intervento

Alcuni risultati preliminari di una serie di sperimentazioni cliniche in corso di validazione tendono a suggerire la validità di questo approccio. I risultati dello studio randomizzato di Fase II-III PACT-15 e dello studio randomizzato di Fase II PACT-19, [Reni et al, 2018], hanno dato indicazioni di migliore sopravvivenza. Queste indicazioni hanno trovato dei riscontri nei risultati preliminari dello studio randomizzato di Fase III PREOPANC che ha avuto una vasta eco al recente congresso ASCO 2018, i cui dati preliminari hanno mostrato una migliore sopravvivenza nel caso di somministrazione di chemioterapia prima dell’intervento.

Questi studi mostrano che la chemio neoadiuvante non comporta complicazioni chirurgiche e non pregiudica il recupero postoperatorio. Inoltre la chemio neoadiuvante permette di verificare da subito la sensibilità del paziente ai farmaci del protocollo scelto senza doverla verificare nel post intervento, migliorando la capacità di scelta del percorso di cura. I precedenti dati sulla chirurgia immediata ci dicono che l’intervento non produce risultati nel caso di un tumore aggressivo e resistente ai farmaci e quindi questo approccio può fornire delle indicazioni sull’opportunità di andare all’intervento.

Anche in questo caso non c’è consenso nella comunità medica sulla durata della chemio neoadiuvante: due, tre, quattro o sei mesi. E neppure su quale sia lo schema più efficace: chemio, chemio più radioterapia, chemio più SBRT, … . In ogni caso dopo l’intervento si procede con la terapia adiuvante senza che ci siano degli studi sull’efficacia dello stesso tipo di schema chemioterapico prima e dopo l’intervento.

Considerazioni finali

Quindi i dati pubblicati in letteratura ci dicono che:

  • circa il 20% dei pazienti diagnosticati con un tumore del pancreas oggi affronta l’intervento,
  • di questo 20% nel caso di intervento immediato senza passar attraverso una cura neoadiuvante:
    • il 39.3% sviluppa una recidiva nel corso del primo anno post intervento
    • il 37% viene a mancare nel primo anno ,
  • solamente circa il 50% circa dei pazienti operati riesce ad iniziare le cure chemioterapiche nelle 8 settimane successive all’intervento chirurgico, aspetto rilevante per aggredire le micrometastasi. Non solo, dei pazienti operati che iniziano la chemioterapia solo il 60% riesce a completarla.

A fronte dei precedenti dati c’è da domandarsi per quanti pazienti l’intervento chirurgico immediato sia la scelta corretta e invece non debba essere preceduto da una cura neoadiuvante che potenzialmente aggredisca le micrometastasi in circolo. Inoltre è lecito domandarsi per quanti pazienti i rischi dell’intervento in termini di sopravvivenza e di qualità della vita siano maggiori dei benefici.

La scelta quindi non è facile e non si vuole in alcun modo sottovalutare il potenziale curativo della chirurgia, ma il 40% circa di recidive nel primo anno post-intervento è un dato che non può non far riflettere. Questo è un quadro di riferimento di dati e di potenziali diversi percorsi di cura per aiutare pazienti e familiari a fare una valutazione più consapevole dei possibili scenari, e di aspettative realistiche con lo scopo di aiutarli a porre delle domande ai medici di riferimento. Inoltre bisogna interrogarsi e riflettere sulla potenziale fallacia dell’idea: rimozione della parte visibile del tumore uguale a rimozione della malattia, a causa della diffusione delle micrometastasi. Tutto ciò fa emergere la fatica di decidere! per pazienti e familiari.

Alcune considerazioni conclusive: la decisone della strategia di cura non può essere delegata al solo chirurgo. Il ruolo di una squadra multidisciplinare e collaborativa, in cui l’oncologo, l’anatomo-patologo, il radioterapista e il radiologo giocano un ruolo importante insieme al chirurgo, deve essere tenuto nella massima considerazione. Diversi centri oggi parlano di approccio multidisciplinare, termine utilizzato più in una prospettiva marketing che di pratica clinica; a tale riguardo conviene verificare la programmazione di riunioni settimanali e la produzione di verbali di queste riunioni.

La presenza di squadre multidisciplinari trova qualche riscontro nei centri ad alto volume, si pone quindi il problema di come venga gestita la cura dei pazienti dei centri periferici. Il suggerimento in questo caso è di avvalersi della seconda opinione di medici di un centro ad alto volume che possibilmente abbiano dei rapporti di collaborazione stabili con il centro periferico. L’ego di alcuni medici può essere un ostacolo importante all’attuazione di questa pratica.

Vale infine la pena sottolineare che mentre solo il 15-20% dei pazienti attualmente affronta l’intervento chirurgico, la quasi totalità dei pazienti si sottopone alle cure chemioterapiche gestite dall’oncologo, che diventa il riferimento principale nel corso delle cure della malattia, anche dei pazienti operati.

 

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Chirurgia del tumore del pancreas: quali benefici e quali rischi

4 Ottobre 2019 • Redazione

La cultura e le convinzioni della comunità dei pazienti e dei familiari del tumore del pancreas sono permeate dal mantra dell’intervento chirurgico immediato risolutore della malattia. L’intervento viene oggi effettuato su circa il 20% dei pazienti affetti da tumore del pancreas. Per una percentuale ridotta di questo 20% di pazienti può avere un ruolo decisivo nell’allungare la sopravvivenza. L’attuale mancanza di adeguati marcatori biologici rende difficile capire quando sia realmente opportuno sottoporsi all’intervento e come meglio arrivarci. Discrepanze sui criteri decisionali tra diversi chirurghi e il rischio di recidive a pochi mesi di distanza dall’intervento aumentano la fatica di decidere dei pazienti e dei loro familiari.

Introduzione

La quasi totalità dei pazienti e dei loro familiari, a fronte di una diagnosi di tumore al pancreas, si rivolge in prima istanza ad un chirurgo indipendentemente dallo stadio della malattia, anche in presenza di metastasi, situazione in cui l’intervento chirurgico non è contemplato dalla linee guida basate sull’evidenza scientifica. Comportamento comprensibile perché nessuno arriva culturalmente preparato ad affrontare all’improvviso una diagnosi così devastante. C’è anche un contesto storico e culturale, una sorta di effetto trascinamento, che fino a 15-20 anni fa vedeva la chirurgia come l’unica opzione di cura, nella convinzione che la resezione della parte visibile del tumore fosse la cura. L’osservazione dell’andamento della malattia nel postoperatorio ha fatto invece emergere una componente fondamentale e strutturale del tumore del pancreas: la presenza nella maggioranza dei casi di micrometastasi non rilevabili dagli attuali strumenti diagnostici e fonte di problemi di difficile gestione.

L’obiettivo di andare ad un intervento chirurgico ovviamente trova un supporto importante nella letteratura scientifica che evidenzia come una quota dei pazienti operati abbiano una probabilità di sopravvivenza maggiore.

È bene però analizzare criticamente e comprendere meglio i dati disponibili per decidere per l’intervento chirurgico immediato oppure per dei cicli di chemioterapia detta neoadiuvante, a cui far seguire una rivalutazione dello stadio della malattia. Tutto ciò per favorire una scelta che minimizzi il rischio di percorsi terapeutici in ultima analisi dannosi e controproducenti.

L’intervento chirurgico immediato

Oggi fondamentalmente la decisione relativa all’intervento chirurgico si fonda:
– sullo stadio del tumore,
– sullo stato di forma fisica del paziente,
– sul rischio di possibili complicazioni derivanti da altre concomitanti patologie.

Molti chirurghi prendono anche in considerazione il valore del marcatore tumorale CA 19.9. Ad oggi non esiste comunque un consenso generalizzato su quale sia il valore a cui fare riferimento per il CA 19.9. L’intervento è poi seguito da una serie di cicli di chemio detta adiuvante.

Percorso di cura con chirurgia immediata

Al momento non esistono criteri biologici affidabili sulla base dei quali decidere se andare all’intervento nella prospettiva di una maggiore sopravvivenza. Ciò deriva anche dall’attuale limitato livello di conoscenza della biologia del tumore del pancreas che purtroppo non è allo stesso livello di quelle dei tumori del seno, della prostata o della tiroide, la cui sopravvivenza a 5 anni è di gran lunga maggiore.

Nella attuale pratica chirurgica l’obiettivo fondamentale dell’intervento al tumore del pancreas, indipendentemente dallo stadio della malattia, è quello di ottenere una resezione con margine R0, ovvero le cellule tumorali sul pezzo operatorio si trovano ad almeno 1 mm dal margine di taglio. Inoltre, è bene essere consapevoli che l’esame istologico del margine di taglio viene raramente eseguito in estemporanea, cioè in corso di intervento.

Il processo decisionale, il come e il perché della decisione di andare all’intervento, benché non basato su marcatori biologici è importantissimo. perché quello che non viene detto ai pazienti per una presa di decisione consapevole sono i seguenti dati post intervento [Groot, VP e al., 2017, Annal of Surgery]:

  • il 18.2% sviluppa una recidiva nei primi 6 mesi dopo l’intervento,
  • il 21.1% sviluppa una recidiva tra il 6° e il 12° mese,
  • il 21,6% sviluppa una recidiva fra il 12° e il 24° mese.

La tabella sottostante ci dice quindi che il 39.3% dei pazienti operati sviluppa una recidiva nel primo anno a fronte di un intervento molto impegnativo con un tasso di complicazioni del 40%. Questi dati rappresentano un primo contributo importante per decidere quale è il potenziale impatto di una scelta che privilegia l’esecuzione dell’intervento immediatamente in ragione della maggiore enfasi dell’aspetto locale, visibile, in termini di controllo della malattia.

Inoltre, tra i pazienti sottoposti ad intervento di resezione, una percentuale ridotta, il 51%, riesce ad iniziare la chemio adiuvante entro le 8 settimane post-intervento [The Impact of Postoperative Complications on the Administration of Adjuvant Therapy Following Pancreaticoduodenectomy for Adenocarcinoma, W Wu, 2014, ASO].

Questi dati forniscono un secondo contributo perché il trattamento chemio adiuvante postoperatorio è molto importante per cercare di aggredire eventuali micrometastasi ancora presenti nel corpo del paziente come ci insegna la costante osservazione che mostra come in una percentuale elevata di pazienti la malattia ricompaia in altri organi (fegato, polmone, peritoneo…).

Un terzo contributo viene da uno studio del Registro Nazionale dei Tumori olandesi [Nationwide Improvement of Only Short-Term Survival After Resection for Pancreatic Cancer in The Netherlands, Nienhuijs et alt., 2012] che sulla base dei dati dei pazienti operati dal 1989 al 2008 ha evidenziato il numero dei pazienti che vengono a mancare in successive finestre temporali:

  • 7% a 3 mesi,
  • 16% a 6 mesi,
  • 37% a 12 mesi.

Questi dati rappresentano un ulteriore elemento di valutazione se si pensa che la mediana di sopravvivenza dei pazienti Stadio IV è di 11 mesi.

I recenti risultati dello studio clinico PRODIGE-24 mostrano valori interessanti dei tempi di assenza di malattia, DFS, Disease Free Survival, con dati di sopravvivenza potenzialmente rilevanti per la sopravvivvenza, OS, Overall Survival, che necessitano una verifica nella pratica clinica giornaliera negli ambulatori. Le modalità di arruolamento dei pazienti alla sperimentazione molto selettive realisticamente non trovano una corrispondenza nella realtà della tipologia dei pazienti che arrivano negli ospedali [Borderline Resectable Pancreatic Cancer, M. Katz et Al., 2019, Cancer].

Un nuovo percorso possibile con chemio neoadiuvante

La decisione di andare all’intervento è soprattutto critica per i pazienti con tumore borderline, tumore che vede coinvolti la vena portale e/o la vena mesenterica superiore per cui la ricostruzione del vaso è fattibile [Optimizing the outcomes of pancreatic cancer surgery, 2018, Oliver Strobel et Al., Nature].

Esiste un’opinione sempre più condivisa che negli ultimi anni tende a privilegiare l’idea di partire con una chemio neoadiuvante con il duplice obiettivo di:

  • ridurre la massa tumorale e il grado di coinvolgimento dei vasi da parte del tumore,
  • aggredire le potenziali micrometastasi già presenti e non rilevabili agli strumenti diagnostici senza dover aspettare mesi nei numerosi casi di un recupero lento post-intervento

Alcuni risultati preliminari di una serie di sperimentazioni cliniche in corso di validazione tendono a suggerire la validità di questo approccio. I risultati dello studio randomizzato di Fase II-III PACT-15 e dello studio randomizzato di Fase II PACT-19, [Reni et al, 2018], hanno dato indicazioni di migliore sopravvivenza. Queste indicazioni hanno trovato dei riscontri nei risultati preliminari dello studio randomizzato di Fase III PREOPANC che ha avuto una vasta eco al recente congresso ASCO 2018, i cui dati preliminari hanno mostrato una migliore sopravvivenza nel caso di somministrazione di chemioterapia prima dell’intervento.

Questi studi mostrano che la chemio neoadiuvante non comporta complicazioni chirurgiche e non pregiudica il recupero postoperatorio. Inoltre la chemio neoadiuvante permette di verificare da subito la sensibilità del paziente ai farmaci del protocollo scelto senza doverla verificare nel post intervento, migliorando la capacità di scelta del percorso di cura. I precedenti dati sulla chirurgia immediata ci dicono che l’intervento non produce risultati nel caso di un tumore aggressivo e resistente ai farmaci e quindi questo approccio può fornire delle indicazioni sull’opportunità di andare all’intervento.

Anche in questo caso non c’è consenso nella comunità medica sulla durata della chemio neoadiuvante: due, tre, quattro o sei mesi. E neppure su quale sia lo schema più efficace: chemio, chemio più radioterapia, chemio più SBRT, … . In ogni caso dopo l’intervento si procede con la terapia adiuvante senza che ci siano degli studi sull’efficacia dello stesso tipo di schema chemioterapico prima e dopo l’intervento.

Considerazioni finali

Quindi i dati pubblicati in letteratura ci dicono che:

  • circa il 20% dei pazienti diagnosticati con un tumore del pancreas oggi affronta l’intervento,
  • di questo 20% nel caso di intervento immediato senza passar attraverso una cura neoadiuvante:
    • il 39.3% sviluppa una recidiva nel corso del primo anno post intervento
    • il 37% viene a mancare nel primo anno ,
  • solamente circa il 50% circa dei pazienti operati riesce ad iniziare le cure chemioterapiche nelle 8 settimane successive all’intervento chirurgico, aspetto rilevante per aggredire le micrometastasi. Non solo, dei pazienti operati che iniziano la chemioterapia solo il 60% riesce a completarla.

A fronte dei precedenti dati c’è da domandarsi per quanti pazienti l’intervento chirurgico immediato sia la scelta corretta e invece non debba essere preceduto da una cura neoadiuvante che potenzialmente aggredisca le micrometastasi in circolo. Inoltre è lecito domandarsi per quanti pazienti i rischi dell’intervento in termini di sopravvivenza e di qualità della vita siano maggiori dei benefici.

La scelta quindi non è facile e non si vuole in alcun modo sottovalutare il potenziale curativo della chirurgia, ma il 40% circa di recidive nel primo anno post-intervento è un dato che non può non far riflettere. Questo è un quadro di riferimento di dati e di potenziali diversi percorsi di cura per aiutare pazienti e familiari a fare una valutazione più consapevole dei possibili scenari, e di aspettative realistiche con lo scopo di aiutarli a porre delle domande ai medici di riferimento. Inoltre bisogna interrogarsi e riflettere sulla potenziale fallacia dell’idea: rimozione della parte visibile del tumore uguale a rimozione della malattia, a causa della diffusione delle micrometastasi. Tutto ciò fa emergere la fatica di decidere! per pazienti e familiari.

Alcune considerazioni conclusive: la decisone della strategia di cura non può essere delegata al solo chirurgo. Il ruolo di una squadra multidisciplinare e collaborativa, in cui l’oncologo, l’anatomo-patologo, il radioterapista e il radiologo giocano un ruolo importante insieme al chirurgo, deve essere tenuto nella massima considerazione. Diversi centri oggi parlano di approccio multidisciplinare, termine utilizzato più in una prospettiva marketing che di pratica clinica; a tale riguardo conviene verificare la programmazione di riunioni settimanali e la produzione di verbali di queste riunioni.

La presenza di squadre multidisciplinari trova qualche riscontro nei centri ad alto volume, si pone quindi il problema di come venga gestita la cura dei pazienti dei centri periferici. Il suggerimento in questo caso è di avvalersi della seconda opinione di medici di un centro ad alto volume che possibilmente abbiano dei rapporti di collaborazione stabili con il centro periferico. L’ego di alcuni medici può essere un ostacolo importante all’attuazione di questa pratica.

Vale infine la pena sottolineare che mentre solo il 15-20% dei pazienti attualmente affronta l’intervento chirurgico, la quasi totalità dei pazienti si sottopone alle cure chemioterapiche gestite dall’oncologo, che diventa il riferimento principale nel corso delle cure della malattia, anche dei pazienti operati.

 

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